Correva l’anno 2000: mandavamo sms, stando attenti a non superare il limite di 160 caratteri, facevamo squilli, e aspettavamo la Summer Card per avere 250 minuti di telefonate.
Da quei tempi felici la tecnologia ha fatto passi avanti: Steve Jobs, Mark Zuckerberg & Co. hanno raccolto il patrimonio di informazioni e pensieri che costituisce la nostra vita e lo hanno letteralmente messo nelle nostre mani.
Grazie agli Smartphone, in ogni momento, siamo in grado di dire quello che vogliamo a chi vogliamo.
Il pericolo dietro a questa affermazione non è immediato da cogliere. Ma basta dare un’occhiata alla home di Facebook per capire quanto è letale.
Chiunque può esprimere qualsiasi pensiero, su qualsiasi argomento, in qualsiasi modo, seppur sprovvisto di specifiche competenze.
Senza congiuntivi gli utenti elaborano periodi ipotetici.
Senza limiti di spazio gli utenti continuano a usare le abbreviazioni.
Senza regole grammaticali – e spesso senza cervello – gli utenti scrivono. Punto.
Senza polemizzare sul cosa scrivono, soffermiamoci un attimo sul come.
Nel dicembre 2017, Whatsapp ci ha regalato la possibilità di inviare note audio.
Un’invenzione apparentemente geniale.
Ma non va dimenticato che anche la bomba atomica è considerata un’invenzione rivoluzionaria.
Che rapporto hanno le persone con gli audio? Un po’ segreteria, un po’ facilitatore per conversazioni lente o non volute. In entrambi casi, un ottimo sistema per dimenticarsi la corretta funzione di virgole e punti, sostituiti da squisiti intercalari quali “eh”, “uh”, “mh”.
I grandi sostenitori degli audio diranno: sono comodi. Va bene, comodi. Ma per chi?
Per chi li invia? Forse.
Per chi li riceve, e magari non ha modo di sentire? Ne dubito.
E quando dici a questi fanatici dal microfono facile che non vuoi ascoltarli, le obiezioni sono sempre le stesse.
“Sono solo sei secondi, è breve!”
Infatti, ci avresti messo di meno a scrivere un messaggio.
“Scusa, stavo guidando!”
Non si usa il cellulare alla guida. Metti gli auricolari e chiamami, piuttosto.
“Ho le mani occupate!”
Probabilmente, perché sei occupato a fare altro. Posa il telefono, con due mani ci metti di meno a far quello che ti tiene occupato. Quando hai finito rispondimi. Magari chiamami.
“Era troppo lungo da spiegare via messaggio!”
Perfetto. Allora chiamami.
“Non mi andava di scrivere.”
Usa la dettatura, se non vuoi scrivere. O meglio ancora: scrivimi quando hai veramente voglia di sentirmi. Oppure chiamami.
Ma perché non si chiama più?
Oggi le telefonate sono troppo intime: a telefono non puoi costruire un personaggio, non c’è possibilità di pensare alla risposta perfetta. È persino peggio di confrontarsi vis à vis. Non puoi utilizzare linguaggio del corpo, non puoi prendere tempo. Sei solo tu, col tuo tono di voce, le tue pause di riflessione e uno strato più o meno conscio di non detto.
E se il problema non fosse che gli audio sono più comodi, ma che semplicemente non siamo in grado di sostenere l’intimità della telefonata? O la sua spontaneità?
Del resto, vale lo stesso per i social. Il motto di Instagram: più filtri, meno verità. Tutto è costruito, calcolato e programmato. Meno spontaneità, più like.
Non chiamiamo chi vorremmo sentire, perché non sapremmo reggere il confronto?
E intanto mandiamo audio a chi capita, per sentirci meno soli.
Possiamo comunicare con chiunque al mondo, purché separati da un vetro e protetti da un filtro.
Ma abbiamo il coraggio di sentire chi vorremmo davvero avere vicino?
E intanto? Molte note audio per nulla.
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